Anna è la mia quarta figlia, nata dopo Samuele, Chiara e Tommaso. Non avrei mai immaginato di avere un quarto figlio, ma forse avevo ancora tanto da imparare e Anna è arrivata per insegnarmelo.

Dopo lo sgomento iniziale dovuto alla notizia di una nuova gravidanza, la gioia di avere un altro figlio ha subito riempito i nostri cuori. Il decorso della gravidanza è stato fisiologico, come le altre gravidanze. Mesi sereni dove, a parte il senso di nausea e il vomito costante, la mia pancia cresceva. Aspettavamo il 31 dicembre, data presunta della nascita, per scoprire se la nostra piccola sarebbe nata nel 2020 o nel 2021.

Anna, la mia forza, il mio orgoglio, la mia piccola eroina

Fino al 22 ottobre 2020. Dove tutto si è fermato, dove tutto è crollato.

L’ecografia di accrescimento era fissata per le 12. Contavo poi di pranzare con un’amica e andare a prendere i miei figli a scuola alle 16. Non sarei più uscita dall’ospedale per 4 giorni e sarei stata dimessa senza pancione e senza mia figlia, ma ancora non lo sapevo.

Il cuore di Annina batteva all’impazzata. La ginecologa, molto scrupolosa e attenta, mi propone di aspettare un’oretta, per vedere se Anna si addormenta e la situazione rientra, ma il cuoricino di Anna non si calma nemmeno dopo un’ora. Sono sola, siamo in periodo COVID e nessun accompagnatore è potuto venire con me alla visita. Mi propongono di fermarmi per fare degli accertamenti su di me. Disdico il pranzo con l’amica, ma posso farcela per prendere i bambini a scuola alle 16. Gli esami sono perfetti. Non ho nessuna infezione, niente che giustifichi la tachicardia di Anna. E il suo cuore continua la sua corsa folle. Da lì non riesco a ricostruire con lucidità gli eventi. Ricordo vari medici che vengono a sentire il cuore di Anna, sguardi preoccupati tra loro e la comunicazione frettolosa, preoccupata, ma tempestiva: “Signora, chiami suo marito. Stiamo per far nascere la sua bambina”.

La mia bambina? Adesso? No, non è possibile, la mia bambina deve nascere a fine dicembre, non può nascere ora. E poi devo andare a prendere i bimbi a scuola.

“Abbiamo valutato attentamente la situazione, sappiamo che è presto, ma dobbiamo capire cosa sta succedendo al cuoricino della bimba. Non abbiamo tempo per indurre il parto. Procediamo con un cesareo”.

Mi fanno gli esami per l’anestesia, il tampone per il COVID, io piango. Cosa succederà alla mia bimba? A proposito, come la chiamo? Non abbiamo ancora scelto il nome, volevamo sceglierlo tutti insieme. Ricordo con immensa gratitudine il dottor Peja che, prima di entrare in sala operatoria, è venuto a spiegarmi cosa significava far nascere un bimbo prematuro. Lo ringrazierò sempre, perché io non sapevo a cosa stavo andando incontro. Mi sarei aspettata di poter almeno vedere la mia bambina, invece lui mi spiega chiaramente che non ci sarebbe stato il tempo. Dovevano subito intervenire sulla bimba, cercando di farle aprire i polmoni (in quell’età gestazionale i suoi polmoni erano ancora chiusi) e stabilizzare la situazione. Per qualche ora non avrei avuto notizie di Anna, perché i medici sarebbero stati impegnati con lei. Non mi sembrava accettabile. Ho sempre avuto parti naturali, seguiti da un “pelle a pelle” di due ore.

Come poteva una bambina essere tolta dalla mia pancia e non sentire l’abbraccio e il profumo della sua mamma? Come poteva una mamma partorire una bambina e non vederla?

Ricordo, durante l’intervento, di aver capito che Anna era nata perché dietro di me ho visto arrivare un’infermiera, ha avvolto qualcosa in un fagottino ed è corsa via, ma da qual fagottino ho visto sbucare un piedino. Ho urlato, ho pianto. Il piedino della mia bimba. Tutto quello che potevo vedere di lei. Erano le 17.41. Nella mia pancia non c’era più nessuno. Ora Anna era in mano ai medici che stavano facendo del loro meglio per farla sopravvivere fuori dall’utero materno.

Anna, la mia forza, il mio orgoglio, la mia piccola eroina

In camera mi sentivo vuota. La mia pancia era vuota, ma non avevo nessuna bimba in braccio. Dovevo scrivere i consueti messaggi per annunciare la nascita di Anna? Era una nascita regolare quella? Decisi di scriverli; alla fine Anna era nata, seppur in condizioni impreviste. Ricordo le risposte di auguri. Auguri per cosa? Per la nascita? Perché la bambina se la cavi in qualche modo? Era una notizia bella o una notizia infelice questa nascita? La mia vicina di letto era in travaglio e io in quei momenti non la sopportavo. Perché lei poteva partorire naturalmente il suo bambino a termine e io no? Poche ore dopo è tornata dalla sala parto con il suo bimbo nel carrellino e piangevo guardandoli. Anch’io avrei voluto la mia bimba accanto a me.

Ho visto Anna per la prima volta nella tarda mattinata del giorno dopo, accompagnata in TIN in carrozzina da un’infermiera. Anna era un ragnetto attaccato a mille fili all’interno dell’incubatrice. Attorno a lei c’erano medici e infermieri che la monitoravano. Si sono presentati, mi hanno descritto la situazione di Anna, ma io non capivo nulla. Ero troppo frastornata, mi sembrava parlassero un’altra lingua. Nei giorni successivi quei termini sarebbero diventati all’ordine del giorno. Le mie giornate, per due mesi, si svolsero all’interno del reparto di Terapia Intensiva Neonatale accanto all’incubatrice di Anna. Portavo i bambini a scuola alle 8 poi correvo da lei, fino alle 16. Ogni giorno mi precipitavo di prima mattina dalla mia bimba e la lasciavo alle 15.30, per essere a casa e dedicarmi agli altri figli. In auto piangevo, mi chiedevo quando avrei potuto portare a casa Anna, quanto sarebbe stato lungo quel periodo infinito.

Poi, in casa, univo tutte le mie forze per raccontare ai fratelli la storia di Anna, la loro sorellina fortissima che stava lottando per andare presto a casa a conoscerli.

In TIN il tempo è lento, scorre piano piano . Tu sei un genitore a metà. A metà perché sei la mamma di quel bambino, ma non puoi toccarlo, non puoi abbracciarlo, non puoi allattarlo. Non puoi fare nulla che serva a farlo vivere. Solo i medici e le infermiere sanno prendersene cura. Tu puoi solo guardarli, ammirata dalla loro competenza nel maneggiare quell’esserino tanto piccolo e delicato. Mi sembrava impossibile sopravvivere a quelle giornate infinite, dove non succedeva nulla. Ma il mio posto era lì, accanto ad Anna, a far nulla. Cercavo di passarle tutto il mio amore guardandola dal vetro e aprendo ogni tanto l’oblò e toccandole la manina.

Non credo di aver mai visto una cosa tanto delicata e preziosa. Le infermiere erano fantastiche. Mi coinvolgevano in ogni cosa che facevano, spiegandomi ogni dettaglio. Io mi sentivo terribilmente inadatta, terribilmente inutile. L’unica cosa che potevo fare era tirarmi il latte e allora, cercavo con estrema precisione, di tirarmi il latte ogni 3 ore, preparando flaconcini su flaconcini di latte per la mia bambina, etichettando con cura ogni contenitore, portandoli avanti e indietro dall’ospedale.

Come stava Anna? Clinicamente era stabile e monitorata costantemente dai medici, ma emotivamente? Sentiva il nostro affetto? Soffriva? Riconosceva le nostre voci? Capiva che le cose non stavano andando come dovevano, che lei non era dove doveva essere? La marsupioterapia è stata la svolta che mi ha aiutata a sentirmi più mamma e, spero, abbia fatto sentire Anna più coccolata. Credo sia servita più a me che ad Anna. Immancabilmente, da quando mi hanno detto che potevamo iniziare la Kangaroo Therapy, tutti i giorni ho tenuto Anna cuore a cuore su di me, per un’ora e anche più. La mia bambina, il suo respiro, il suo profumo. Mille fili, mille precauzioni, ma potevo tenere la mia bambina in braccio. Potevamo iniziare a conoscerci, a respirarci. Non ho mai mancato l’appuntamento della marsupioterapia un solo giorno. Se le infermiere erano impegnate, attendevo pazientemente un momento buono, per chiedere loro se potevano sistemarmi Anna. Da quel momento in poi, non esisteva più niente e nessuno.

Anna, la mia forza, il mio orgoglio, la mia piccola eroina

Eravamo solo io e lei, i nostri cuori che battevano vicini, i nostri respiri sincronizzati.

Ogni traguardo di Anna era una grande gioia per tutti, in ospedale e a casa. Ricordo quando per la prima volta ho visto Anna senza il respiratore. Finalmente scoprivo come era il volto della mia bimba!

Rimarrà impressa nel mio cuore la sensazione di “quasi normalità” quando, entrando in TIN ho visto Anna in un lettino e non più nell’incubatrice. Piccoli passi verso la normalità.

L’emozione della prima volta in cui le ho dato il biberon, la prima volta che l’ho attaccata al seno, la prima volta che l’ho cambiata… Tutte le nostre “prime volte” sono avvenute in TIN.

La dimissione di Anna era programmata per l’11 dicembre. Quel giorno mi sentivo leggera. A casa tutto era pronto. Fratelli emozionatissimi, vestitini pronti, palloncini appesi. Arrivata in ospedale, il mondo mi è sembrato crollare. Il cuore di Anna era di nuovo impazzito durante la notte. Niente dimissione. Non si tornava a casa, non c’erano più le condizioni. Credevo di non avere la forza di affrontare anche questa batosta. Anna aveva bisogno di tranquillità, della sua casa, dei suoi fratelli. Aveva raggiunto tutte le tappe previste: aveva imparato a respirare, ad alimentarsi, a termoregolarsi, ma niente, il cuore non collaborava.

Anna è stata poi dimessa il 14 dicembre con l’assunzione di un farmaco, che tuttora prende, per regolare i battiti del suo cuore dopo 53 giorni di Terapia Intensiva.

Non riuscirei a immaginare la mia vita senza Anna.

Amo tantissimo ognuno dei miei figli, ma l’esperienza vissuta con Anna mi ha fatto provare un amore ancora più grande.

Anna mi ha insegnato a lottare, a resistere, ad attendere, ad apprezzare ogni singolo momento.

Anna è la mia forza, il mio orgoglio, la mia piccola eroina.

Francesca

Anna, la mia forza, il mio orgoglio, la mia piccola eroina

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